Non sarà certo questo Marco Di Bello, bancario di Brindisi
votato al fischietto, a stupirmi. A rafforzarmi più di tanto nell’idea,
maturata in una lunga carriera giornalistica, che la buonafede degli arbitri
sia tutt’altro che indiscutibile, come cercano di inculcarci da una vita quelli
della “maggior tutela”, che in genere la abbinano con l’altro concetto insulso
e indimostrabile degli “errori alla fine si compensano”.
Ha ragione in proposito il mio amico Fabrizio Sapia – non si offenderà, spero,
se lo cito – quando scrive su Twitter: “Ai laziali che
hanno meno di 30 anni voglio dire di non darsi alcun pensiero per una partita,
purtroppo, per noi senza grandi significati. Chi ha vissuto il campionato
98/99, chi ha vissuto quel ladrocinio, quel furto, quella rapina, deve farsi
solo una risata sarcastica, stasera”.
C’era sempre di mezzo il Milan: andatevi a rileggere cosa accadde sul campo
(gigantesco rigore negato a Salas a Firenze) e fuori (le dichiarazioni postume
dei cosiddetti “pentiti” della combine). Scipparono a Cragnotti ed Eriksson uno
scudetto già vinto. In confronto la fucilazione di ieri è una quisquilia.
E hanno colto nel segno – casomai qualcuno dubitasse – tutti quei laziali che
non dimenticano e che hanno ritrovato il Di Bello come attore protagonista in
una serie di nefandezze assolute perpetrate ai danni della Lazio. Compreso,
stavolta seduto sul Var, lo storico scippo di Lazio-Torino targato Giacomelli.
Compreso un altro rigore assegnato a San Siro sempre al Milan per un fallo di
Patric, molto presunto e comunque da educanda rispetto alla scomposta uscita di
Maignan su Castellanos. Compreso il famoso rigore concesso nel derby del 2017
alla Roma per clamorosa simulazione di Strootman: allora lui era l’arbitro di
linea (poi passato di moda) che spinse Orsato a fischiare un fallo inesistente
per assoluta mancanza di contatto.
Non sarà certo, comunque, questo Marco Di Bello l’unico ad avercela con la
Lazio. Basti pensare al suo coetaneo Fabio Maresca, napoletano, più o meno la
stessa spocchia di intoccabilità, come si è visto quindici giorni fa. Riporto una frase postata dal collega Paolo Ziliani
e attribuita al designatore Rocchi, a proposito di Di Bello dopo
Juventus-Bologna e un rigore clamoroso negato agli ospiti: "Di Bello ha
sbagliato? Sì, ma lo voglio subito in campo, lui è un'eccellenza".
Sarà un’eccellenza anche Maresca…
Impossibile cambiarlo, in ogni caso, l’andazzo arbitrale. Ogni tanto qualche
fischietto meno coinvolto prova a raccontarlo dall’interno il carrierismo
sfrenato che lo contraddistingue. Ma qualsiasi rivelazione viene fatta passare abilmente
per la “vendetta del trombato” e tutto finisce in vacca. La buonafede è un dogma, non crederci
è peccato calcistico grave.
Eppure basterebbe attenersi alla realtà: l’arbitro è un comune mortale, con il
suo tifo, le sue simpatie e antipatie, le sue piccole vendette, la voglia di
protagonismo, la sua ansia di carriera e di guadagno. Avete mai visto far
carriera, in qualsiasi campo, uno fuori dal Sistema? Suvvia…
La Lazio è bersaglio facile proprio per l’inverso. Essendo probabilmente nella
Storia il club italiano più lontano dai gangli centralistici vitali. Basterebbe
pensare a quanto pagò per il (primo) calcioscommesse dei suoi giocatori,
laddove fu ampiamente dimostrato che almeno altri dieci club usciti indenni avevano
in casa qualche scommettitore seriale. Basterebbe pensare a quel -9 del secondo
che a qualcuno apparve come una salvezza dalla C e altro non era invece che una
più che probabile doppia sanzione, una serie C solo rinviata di un anno dopo il
purgatorio della cadetteria. Accadde l’impensabile perché il calcio vero
racconta di certe imprese. Accadde nonostante un altro arbitraggio pilotato
perfino nella prima partita di spareggio col Taranto.
E’ la Lazio il bersaglio, non i protagonisti di passaggio. Un bersaglio facile
dal 1927 quando non fu più sola a Roma a competere con le grandi del Nord.
Invisa subito ai politici per il suo no alla fusione. E poi per la difesa del
dilettantismo della sua invidiabile Polisportiva. Ne ha passati di inciampi, di
malversazioni, di crolli, di tragedie: se ne è uscita è per merito dei suoi
tifosi, che la amano di un amore diverso, “ammalandosene” come diceva Chinaglia
inguaribilmente. Fateci caso: sono pochissimi (da ieri aggiungerei il ridente Pioli
alla lista) coloro che sono passati dalla sponda biancoceleste di Roma senza
farsi emotivamente conquistare. Forse perché la Lazio devi viverla dall’interno
per capirla. Dall’esterno è impossibile viste le maldicenze che si porta
dietro, peraltro con fierezza. Ai dispetti, agli sgambetti vigliacchi, come
quello di ieri, bisogna abituarsi. Ci siamo abituati. E non vale davvero la
pena farne un dramma. E’ il calcio che dovrebbe preoccuparsi della propria
credibilità.
Lotito non c’entra. E’ venuto dopo e comunque, al di là della protesta
piuttosto fumosa di ieri in tv, è da sempre perfettamente sinergico al Sistema.
Forse un po’ lo è stato perfino Cragnotti, che sapeva sentire il vento e alla
fine mise tutto quel che aveva per garantirsi un manipolo di campioni, unica
possibilità di scudetto.
Non lo era “papà Lenzini”, un “parvenu” agli occhi dei maggiorenti del Nord:
solo che a un certo punto si ritrovò con Maestrelli e una squadra di fenomeni,
un’alchimia del Destino.
Noi il calcio pulito lo abbiamo visto, almeno una volta. Voi, ragazzi,
andatevelo ogni tanto a rivedere.
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