Gli amici chiedono incuriositi del mio romanzo…
Un giallo? Un thriller? Un noir? E come ti è venuto in mente?
Eravamo rimasti – dicono - a “Due soli”, che era il cassetto aperto su amore e ricordi, il manoscritto virtuale che abbiamo tutti conservato in un angoletto della memoria solo che bisogna decidersi a tirarlo via da sotto la marea di carte che lo seppelliscono.
Eravamo rimasti – aggiungono – a “Controstoria della Lazio”, che era un po’ la fine dell’inizio, il bilancio di una carriera, di una professione meglio, raccontata ai correligionari più che ai tifosi, a quelli che certe emozioni le hanno condivise e non sentite dire.
E’ che poi nella vita un po’ si cambia, si devia, si sterza verso qualcosa di nuovo, qualsiasi “qualcosa”. A me il giallo, inteso come enigma, intrigo, indagine, mi ha sempre affascinato. Ne ho letti tanti e di tanti autori diversi. Ovviamente i meglio congegnati sono quelli di Agatha Christie ma George Simenon non le è certo da meno. Mi è piaciuto il primo Ken Follet delle spie, la prima Patricia Cornwell dei serial killer con l’eroina Kay Scarpetta, la straordinaria Vargas e il Pandiani de “les italiens”, il Nesbo che ti porta tra i ghiacci e gli enigmi norvegesi, le molte autrici del Nord-Europa da Anne Holt a Camilla Lackberg. Trovo scritta magnificamente la Trilogia della nebbia di Zafòn e “Ninfee nere” di Michel Bussi in assoluto il miglior romanzo poliziesco dell’ultimo anno. Leggo meno gli italiani ma ormai De Giovanni, Carofiglio, Costantini, Carlotto, Ricciardi si sono inseriti stabilmente sulla scia di Camilleri e del suo riuscitissimo commissario Montalbano.
Io resto un giornalista e non ho un commissario inedito da proporre, o magari un maresciallo dei carabinieri. Ho cercato qualcosa di meno inedito – ma tutto è stato edito ormai… - e mi sono imbattuto in quello che avrei potuto essere, forse un po’ sono anche stato: ovvero un cronista ficcanaso, ma con molta più fantasia e sfacciataggine della mia. L’ho trasposto di cent’anni indietro perché ho ben chiara l’idea che quello era ancora forse un giornalismo libero, d’inchiesta, rispetto a quello di oggi fatto principalmente di veline e di giornalisti usati come grimaldelli, anzi veri e propri piedi di porco, al servizio degli schieramenti politici.
L’ho chiamato Diego, il protagonista, forse influenzato dal Diego de la Vega meglio noto come Zorro, eroe della mia gioventù. E non gli ho dato neanche un cognome. Diego e basta.
Nella prima e finora unica recensione che ho letto su “Uno sparo nel buio” – sì il romanzo si chiama così e pazienza se ce n’è un altro di Edgar Wallace e poi il celebre film della saga della Pantera Rosa con Peter Sellers – il personaggio che ha colpito piacevolmente di più è proprio lui, coi capelli perennemente scompigliati e una voglia rosata che fa capolino sotto la barbetta stile bohémien, unica moda che potesse concedersi.
In realtà questo romanzo che ho scritto dopo lunghi mesi di ricerca su come era davvero la Roma di un secolo fa è basato, imperniato, su una storia vera, su una vicenda di cronaca nera. Sul processo che si svolse in Corte d’Assise contro un marito, Ignacio Mesones, accusato di aver ucciso la moglie, Bice Simonetti. O meglio di averla “suicidata” inscenando appunto un finto suicidio. Con un “piccolo” particolare: lui era cieco, lei perfettamente vedente…
Un legal thriller, allora?
Non direi. Cioè è la parola thriller che stona… visto il mio modo di scrivere. Non credo di essere in grado di tenere il lettore attanagliato in poltrona con l’ansia che scorre e l’angoscia che sale. Io racconto di un mondo, di un contorno, di una malavita ormai scomparsa nel tempo, di bulli e non banditi della Magliana, di vizi privati che invece non si sono mai persi, che si sono estesi fino ai nostri giorni. Di un certo tipo di complicità occulta eppure sotto gli occhi di tutti. E’ un romanzo che racconta di colpi di scena realmente verificatisi e di una realtà che supera la fantasia…
Non fosse troppo grande il concetto, potrebbe trattarsi di un romanzo storico….
Allora diciamo così: un piccolo romanzo con molta ricerca storica all’interno.
Ma non pensiate di esservela cavata così. Ci tornerò.
Un giallo? Un thriller? Un noir? E come ti è venuto in mente?
Eravamo rimasti – dicono - a “Due soli”, che era il cassetto aperto su amore e ricordi, il manoscritto virtuale che abbiamo tutti conservato in un angoletto della memoria solo che bisogna decidersi a tirarlo via da sotto la marea di carte che lo seppelliscono.
Eravamo rimasti – aggiungono – a “Controstoria della Lazio”, che era un po’ la fine dell’inizio, il bilancio di una carriera, di una professione meglio, raccontata ai correligionari più che ai tifosi, a quelli che certe emozioni le hanno condivise e non sentite dire.
E’ che poi nella vita un po’ si cambia, si devia, si sterza verso qualcosa di nuovo, qualsiasi “qualcosa”. A me il giallo, inteso come enigma, intrigo, indagine, mi ha sempre affascinato. Ne ho letti tanti e di tanti autori diversi. Ovviamente i meglio congegnati sono quelli di Agatha Christie ma George Simenon non le è certo da meno. Mi è piaciuto il primo Ken Follet delle spie, la prima Patricia Cornwell dei serial killer con l’eroina Kay Scarpetta, la straordinaria Vargas e il Pandiani de “les italiens”, il Nesbo che ti porta tra i ghiacci e gli enigmi norvegesi, le molte autrici del Nord-Europa da Anne Holt a Camilla Lackberg. Trovo scritta magnificamente la Trilogia della nebbia di Zafòn e “Ninfee nere” di Michel Bussi in assoluto il miglior romanzo poliziesco dell’ultimo anno. Leggo meno gli italiani ma ormai De Giovanni, Carofiglio, Costantini, Carlotto, Ricciardi si sono inseriti stabilmente sulla scia di Camilleri e del suo riuscitissimo commissario Montalbano.
Io resto un giornalista e non ho un commissario inedito da proporre, o magari un maresciallo dei carabinieri. Ho cercato qualcosa di meno inedito – ma tutto è stato edito ormai… - e mi sono imbattuto in quello che avrei potuto essere, forse un po’ sono anche stato: ovvero un cronista ficcanaso, ma con molta più fantasia e sfacciataggine della mia. L’ho trasposto di cent’anni indietro perché ho ben chiara l’idea che quello era ancora forse un giornalismo libero, d’inchiesta, rispetto a quello di oggi fatto principalmente di veline e di giornalisti usati come grimaldelli, anzi veri e propri piedi di porco, al servizio degli schieramenti politici.
L’ho chiamato Diego, il protagonista, forse influenzato dal Diego de la Vega meglio noto come Zorro, eroe della mia gioventù. E non gli ho dato neanche un cognome. Diego e basta.
Nella prima e finora unica recensione che ho letto su “Uno sparo nel buio” – sì il romanzo si chiama così e pazienza se ce n’è un altro di Edgar Wallace e poi il celebre film della saga della Pantera Rosa con Peter Sellers – il personaggio che ha colpito piacevolmente di più è proprio lui, coi capelli perennemente scompigliati e una voglia rosata che fa capolino sotto la barbetta stile bohémien, unica moda che potesse concedersi.
In realtà questo romanzo che ho scritto dopo lunghi mesi di ricerca su come era davvero la Roma di un secolo fa è basato, imperniato, su una storia vera, su una vicenda di cronaca nera. Sul processo che si svolse in Corte d’Assise contro un marito, Ignacio Mesones, accusato di aver ucciso la moglie, Bice Simonetti. O meglio di averla “suicidata” inscenando appunto un finto suicidio. Con un “piccolo” particolare: lui era cieco, lei perfettamente vedente…
Un legal thriller, allora?
Non direi. Cioè è la parola thriller che stona… visto il mio modo di scrivere. Non credo di essere in grado di tenere il lettore attanagliato in poltrona con l’ansia che scorre e l’angoscia che sale. Io racconto di un mondo, di un contorno, di una malavita ormai scomparsa nel tempo, di bulli e non banditi della Magliana, di vizi privati che invece non si sono mai persi, che si sono estesi fino ai nostri giorni. Di un certo tipo di complicità occulta eppure sotto gli occhi di tutti. E’ un romanzo che racconta di colpi di scena realmente verificatisi e di una realtà che supera la fantasia…
Non fosse troppo grande il concetto, potrebbe trattarsi di un romanzo storico….
Allora diciamo così: un piccolo romanzo con molta ricerca storica all’interno.
Ma non pensiate di esservela cavata così. Ci tornerò.
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