Caro Giorgio,
mi perdonerai se scrivo in fretta. Una lettera senza lacrime, che del resto non potresti vedere. Spero tu possa sentirle, però, perché fanno sempre da sottofondo quando se ne va qualcuno che hai nel cuore.
Non ti sarebbero piaciuti, credo, i pianti. Come non ti piacevano la rabbia e l'acredine. Le recriminazioni. Lo deduco dalle tre o quattro chiacchierate che ci siamo fatti in passato, non di meno, non di più, perché a nessuno dei due sarebbe mai passato per la mente di scambiare la stima reciproca per un'amicizia secolare. L'amicizia è roba seria, deve viaggiare per vicissitudini e incomprensioni, prove del fuoco, litigi. E' roba da ragazzi prima che da adulti. Noi due ci siamo intesi al volo, come si dice, ci siamo piaciuti, ci siamo scambiati le stesse idee, ci siamo stretti la mano e abbiamo proseguito ciascuno per le proprie faccende. Senza perderci di vista, buttando uno l'occhio all'altro, magari di sfuggita sui social. E' così che ho saputo qualcosa, ma era qualcosa che non volevi dire, di cui non ti andava di parlare: e non ho insistito, ti ho lasciato combattere!
Hai scritto un libro, "Foot-ballers al fronte", storie di calciatori (e di un tifoso) nella Grande Guerra, una ricerca ben riuscita ma pure una fuga nella memoria, a cercare un altrove. Lo hai scritto mentre io finivo la mia "Controstoria della Lazio". Ce li siamo scambiati senza troppe cerimonie, li abbiamo commentati l'uno all'altro senza cadere nella retorica ma rafforzandoci la stima. Io ti devo di più perché sei stato tu ad aprirmi lo scrigno dei tuoi ricordi fotografici per lasciarmi scegliere l'immagine che campeggia sulla copertina di "Controstoria". E' un'immagine scattata da una prospettiva diversa dal solito, come è stata la nostra. E' la festa di uno scudetto, del nostro, quello del '74. Nostro per motivi generazionali, per quanto io, caro Giorgio, sia un bel po' più antico di te: il che accresce adesso la mia tristezza. Nostro, quello scudetto, soprattutto per motivi sentimentali, perché appartiene all'ultimo calcio, all'ultimo calcio vero. Non a caso ho scelto la foto che meglio ti rappresenta, quella con Felice Pulici...
Non ci sarò domani al tuo addìo terreno. E' il destino che vuole così. Ci avrei tenuto per dirti queste cose in privato, sussurrarle in una preghiera. Ma la nostra vita, la vita di chi crede ancora in certi valori, è fatta di slanci improvvisi, a volte insensati: mi piace immaginare che queste parole ti possano in qualche modo comunque arrivare. Si vive nel ricordo di chi resta e quindi un alito provo a dartelo anch'io.
L'ultimo pensiero che avevo scritto su questo blog, pensa un po', è datato dicembre. Lo avrai letto senz'altro, se non ricordo male ci eravamo anche sentiti per commentarlo. Riguardava la nostra Lazio e i torti arbitrali, il dopo-Torino. Non mi sono mai sentito un profeta - per quanto in tanti chiedano ai giornalisti di esserlo per poi poterli sbeffeggiare, confondendo apposta il fare cronaca con il guardare nelle viscere di un pollo - e non ho mai azzeccato un pronostico: ma non mi ero sbagliato per una volta, quella volta. Lo dicono i verdetti del campionato, non ti sei perso granché, era una fine già segnata.
E hai fatto bene, come ti avevo detto a voce, a dedicare l'ultima parte della tua avventura di tifoso - già, essere tifoso come lo sei stato tu è comunque una fantastica esperienza - a qualcosa di più alto, a stare al fianco, a seguire passo passo, a sostenere, a tenere in alto un drappo bianco e celeste che era quello dei Padri Fondatori. Hai fatto bene a esserci dove servivi, dove la Lazio è un concetto, una fede, un ideale che vola molto ma molto più in alto delle piccinerie del calcio-business, delle ripicche fratricide, della guerra civile scatenata nel nome di chi di Lazio non sa nulla, non la Storia sicuramente. Mentre cert'altri si dedicavano ai loro affari, dandosi come diversivo del "gufo" o del "non sai che tifoso sono io!", tu ti sei provvidenzialmente defilato, sei andato in cerca delle origini, fosse in un rettangolo di calcio a cinque o in quello regolamentare verde-rosa, tra le figlie di un calcio minore. Non parliamo di purezza assoluta ma almeno di aria respirabile. Hai incarnato insomma la Lazialità che non s'inventa, si sente per l'anima, si porta a volte con gioia e più spesso con sofferenza. Hai volato alto, caro Giorgio, lasciando a terra la meschinità che ci circonda non solo ovviamente nello sport che amiamo di più.
"Acerbis" ti chiamavano, e non so bene il perché. A pensarci non te l'ho mai chiesto ma lo immagino. Se è un omaggio al giocatore, posso dire che quello era un lavoratore del pallone come tu lo sei stato del tifo, quindi della passione. Ma Giorgio è di più. Per quanto ci riguarda, credo, è un dito alzato a sfidare il mondo, a dire che ci siamo stati in questo mondo, che ci volessero o meno...
mi perdonerai se scrivo in fretta. Una lettera senza lacrime, che del resto non potresti vedere. Spero tu possa sentirle, però, perché fanno sempre da sottofondo quando se ne va qualcuno che hai nel cuore.
Non ti sarebbero piaciuti, credo, i pianti. Come non ti piacevano la rabbia e l'acredine. Le recriminazioni. Lo deduco dalle tre o quattro chiacchierate che ci siamo fatti in passato, non di meno, non di più, perché a nessuno dei due sarebbe mai passato per la mente di scambiare la stima reciproca per un'amicizia secolare. L'amicizia è roba seria, deve viaggiare per vicissitudini e incomprensioni, prove del fuoco, litigi. E' roba da ragazzi prima che da adulti. Noi due ci siamo intesi al volo, come si dice, ci siamo piaciuti, ci siamo scambiati le stesse idee, ci siamo stretti la mano e abbiamo proseguito ciascuno per le proprie faccende. Senza perderci di vista, buttando uno l'occhio all'altro, magari di sfuggita sui social. E' così che ho saputo qualcosa, ma era qualcosa che non volevi dire, di cui non ti andava di parlare: e non ho insistito, ti ho lasciato combattere!
Hai scritto un libro, "Foot-ballers al fronte", storie di calciatori (e di un tifoso) nella Grande Guerra, una ricerca ben riuscita ma pure una fuga nella memoria, a cercare un altrove. Lo hai scritto mentre io finivo la mia "Controstoria della Lazio". Ce li siamo scambiati senza troppe cerimonie, li abbiamo commentati l'uno all'altro senza cadere nella retorica ma rafforzandoci la stima. Io ti devo di più perché sei stato tu ad aprirmi lo scrigno dei tuoi ricordi fotografici per lasciarmi scegliere l'immagine che campeggia sulla copertina di "Controstoria". E' un'immagine scattata da una prospettiva diversa dal solito, come è stata la nostra. E' la festa di uno scudetto, del nostro, quello del '74. Nostro per motivi generazionali, per quanto io, caro Giorgio, sia un bel po' più antico di te: il che accresce adesso la mia tristezza. Nostro, quello scudetto, soprattutto per motivi sentimentali, perché appartiene all'ultimo calcio, all'ultimo calcio vero. Non a caso ho scelto la foto che meglio ti rappresenta, quella con Felice Pulici...
Non ci sarò domani al tuo addìo terreno. E' il destino che vuole così. Ci avrei tenuto per dirti queste cose in privato, sussurrarle in una preghiera. Ma la nostra vita, la vita di chi crede ancora in certi valori, è fatta di slanci improvvisi, a volte insensati: mi piace immaginare che queste parole ti possano in qualche modo comunque arrivare. Si vive nel ricordo di chi resta e quindi un alito provo a dartelo anch'io.
L'ultimo pensiero che avevo scritto su questo blog, pensa un po', è datato dicembre. Lo avrai letto senz'altro, se non ricordo male ci eravamo anche sentiti per commentarlo. Riguardava la nostra Lazio e i torti arbitrali, il dopo-Torino. Non mi sono mai sentito un profeta - per quanto in tanti chiedano ai giornalisti di esserlo per poi poterli sbeffeggiare, confondendo apposta il fare cronaca con il guardare nelle viscere di un pollo - e non ho mai azzeccato un pronostico: ma non mi ero sbagliato per una volta, quella volta. Lo dicono i verdetti del campionato, non ti sei perso granché, era una fine già segnata.
E hai fatto bene, come ti avevo detto a voce, a dedicare l'ultima parte della tua avventura di tifoso - già, essere tifoso come lo sei stato tu è comunque una fantastica esperienza - a qualcosa di più alto, a stare al fianco, a seguire passo passo, a sostenere, a tenere in alto un drappo bianco e celeste che era quello dei Padri Fondatori. Hai fatto bene a esserci dove servivi, dove la Lazio è un concetto, una fede, un ideale che vola molto ma molto più in alto delle piccinerie del calcio-business, delle ripicche fratricide, della guerra civile scatenata nel nome di chi di Lazio non sa nulla, non la Storia sicuramente. Mentre cert'altri si dedicavano ai loro affari, dandosi come diversivo del "gufo" o del "non sai che tifoso sono io!", tu ti sei provvidenzialmente defilato, sei andato in cerca delle origini, fosse in un rettangolo di calcio a cinque o in quello regolamentare verde-rosa, tra le figlie di un calcio minore. Non parliamo di purezza assoluta ma almeno di aria respirabile. Hai incarnato insomma la Lazialità che non s'inventa, si sente per l'anima, si porta a volte con gioia e più spesso con sofferenza. Hai volato alto, caro Giorgio, lasciando a terra la meschinità che ci circonda non solo ovviamente nello sport che amiamo di più.
"Acerbis" ti chiamavano, e non so bene il perché. A pensarci non te l'ho mai chiesto ma lo immagino. Se è un omaggio al giocatore, posso dire che quello era un lavoratore del pallone come tu lo sei stato del tifo, quindi della passione. Ma Giorgio è di più. Per quanto ci riguarda, credo, è un dito alzato a sfidare il mondo, a dire che ci siamo stati in questo mondo, che ci volessero o meno...
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