Non credete, per favore, a chi sostiene che i giornalisti condizionino gli esiti sportivi con le loro critiche. E' uno dei grandi falsi della nostra epoca. Tanto per esser pratici, andatevi a rileggere la storia del Mondiale di calcio dell'82, quando il giornalismo mondiale compatto, dopo il terzo deludente pareggio dell'Italia di Bearzot nel girone di qualificazione, sommerse gli azzurri di (più che legittimi) rilievi tecnici. Da non confondere, sia chiaro, con le indebite incursioni nel privato dei giocatori, che pure vi fu. L'Italia vinse quel Mondiale non "contro" qualcuno ma "contro" se stessa. Aveva bisogno di un innesco e lo trovò sul campo, come è logico e tutti ricordiamo, quando Gentile annullò Maradona e Rossi punì poco dopo il più supponente Brasile di sempre. Tutto lo sport, vi assicuro, è pieno di vicende simili, a livello singolo e di squadra: atleti sommersi di critiche eppure nati con la propria forza interiore a nuova vita, perché è la stoffa che conta, e la stoffa ha componenti fisiche e mentali.
Da che mondo è mondo, il giornalista denuncia quello che non va. E' la sua "amara" ma indispensabile funzione perché dà la misura della libertà. Mi ha fatto sempre sorridere l'obiezione di qualche benpensante d'accatto: "Ma perché sui giornali non mettete il bello della vita invece di cercare sempre il marcio?" Non ho mai creduto valesse la pena di rispondere, in parte perché non è vero (si pensi alle paginate sugli spettacoli di successo, o chessò sui premi Nobel, le celebrazioni di atti generosi o addirittura eroici, delle stesse imprese sportive per rimanere nel nostro ambito), in parte perché come dice l'aneddotica del nostro mestiere non interesserà a nessuno del cane che morde l'uomo ma, al limite e forse nemmeno più, dell'uomo che morde il cane.
Da qualche tempo, però, il mondo si è addirittura rovesciato. Il giornalista tipo (ci sono le eccezioni, è ovvio, ma sono purtroppo sempre più rare) ha completamente rinunciato alla propria funzione critica. In altre parole ha completamente smarrito l'obiettività. "Tifa": per usare un verbo chiaro a tutti. Ovvero si fa guidare dall'interesse invece che dal cervello, abdicando nei fatti alla propria missione. Esiste un "tifo" politico in cui non mi avventuro perché è chiaro a tutti, mosso da interessi spesso ideologici e quasi sempre mercenari: avete mai visto un giornale partiticamente vicino a un certo sindaco denunciare le montagne d'immondizia che invadono le strade di quel paese? Dai, che ne parliamo a fare? E' un giornalismo venduto, asservito. Peggio ancora: servo per scelta. Per non parlare di quello economico, in grado, esso sì, di condizionare e indirizzare la nostra stessa esistenza, al servizio dei Potentati del momento.
Ma pensavo, quando ho cominciato una quarantina e passa d'anni fa, che a parlare di sport saremmo stati sempre, tutti noi del mestiere, "serenamente" liberi. Strada facendo questa convinzione si è sgretolata: oggi posso contare sulle dita i colleghi coerenti con la mia visione della professione. Per vergognarsi di noi sarebbe bastato leggere di alcune posizioni recenti: sul caso Juventus-Napoli, su Immobile e la nazionale, su Ronaldo e il covid, tanto per limitarsi alla stretta attualità. Ottusità allo stato puro, moltiplicata dalle ragioni del tifo sovrano. Mi limito al tecnico: ci vuole tanto ad ammettere che Immobile ha sbagliato un gol e merita l'insufficienza nella singola partita eppure rimane il più forte e affidabile attaccante italiano in attività? Bisogna per forza decretare che "deve giocare sempre" o che "non deve giocare mai più" in nazionale? A seconda della propria fede calcistica... E' triste, anzi direi inaccettabile.
Ma c'è qualcosa ancora di peggiore. I giornalisti sportivi si sentono sempre più influencer, opinion leader (termini che andrebbero cancellati dal nostro esterofilo dizionario), depositari del Verbo. Si fanno capicorrente di gruppi di tendenza, avvoltolandosi nella propria melassa e sparando a zero su chiunque la pensi differentemente, come il più becero dei fanatici. Mi capita di leggere sui Social autentici stravolgimenti della realtà, a uso e consumo dei propri adepti. Quando un giornalista si schiera per simpatia o per denaro, non so, a sostegno di una causa, è irrimediabilmente perduto. Lasciate la cosiddetta "fede" ai tifosi, agli "opinionisti" con cui avete finito per confondervi in un abbraccio mortale per la nostra professione. La panettiera con mille "mi piace" (mi vergogno a dire like) sul profilo saprà fare magnificamente il pane ma non può rubarvi la professione, la vostra professione, che è sinonimo di servizio e non di mercimonio. Ho preso atto di difese dell'indifendibile, orrori di mercato spacciati per rafforzamento di rose, allenatori attaccati perché non abbastanza allineati e non per le proprie, anche discutibili, scelte. Significa truffare chi vi ascolta o vi legge. Peggio, vi ho sentito insultare chi non la pensa come voi. In una corsa sfrenata allo scadimento totale nel becerume.
Spero che qualcuno torni sui propri passi. La smetta di "tutelare" altro che non sia la libertà di espressione. Ricordando sempre che, anche e a maggior ragione nello Sport, essere giornalista non significa azzeccare pronostici o avere per forza ragione ma solo mettersi, gioco forza, ogni giorno in discussione.
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